Skip to main content

Innovazione digitale e Intelligenza Artificiale in Italia: stato attuale e prospettive

Introduzione. Negli ultimi anni l’Italia ha accelerato il passo verso la trasformazione digitale e l’adozione dell’intelligenza artificiale (IA). In un contesto globale in cui tecnologia e innovazione guidano la crescita economica, il nostro Paese sta cercando di colmare il divario che lo separa dai leader europei. Qual è lo stato attuale dell’innovazione digitale in Italia rispetto ad altri Paesi UE? Quali investimenti e strategie sono in corso, e quali sfide restano da affrontare? In questo articolo divulgativo esamineremo la situazione italiana – dai progressi recenti alle difficoltà – e le prospettive future per rendere l’Italia un protagonista dell’era digitale.

Contesto attuale: digitalizzazione in Italia e strategie governative

Nel panorama europeo della digitalizzazione, l’Italia storicamente occupa posizioni di coda, anche se sono evidenti segnali di recupero. Secondo l’indice DESI 2022 (Digital Economy and Society Index) della Commissione Europea, l’Italia si colloca al 18º posto su 27 Stati membri per livello di digitalizzazione. Questo dato evidenzia un ritardo rispetto alla media UE, ma va letto insieme ad altri indicatori incoraggianti: negli ultimi cinque anni l’Italia sta avanzando a ritmo sostenuto nel punteggio DESI, mostrando un progresso “notevole”. In altre parole, pur partendo da una posizione arretrata, il Paese sta recuperando terreno a velocità superiore rispetto a molti partner europei.

Diversi sviluppi istituzionali indicano una crescente priorità data al digitale. Per esempio, è stato creato un Ministero dedicato all’innovazione tecnologica e alla transizione digitale, e sono state adottate strategie chiave come il Piano “Italia Digitale 2026” (nell’ambito del PNRR) e la Strategia Nazionale per l’Intelligenza Artificiale. Queste iniziative delineano obiettivi ambiziosi: portare la connettività a banda ultra larga e il 5G su tutto il territorio nazionale, digitalizzare la Pubblica Amministrazione (PA) e diffondere le competenze digitali tra cittadini e imprese. Ad esempio, già entro il 2022 l’Italia ha completato l’Anagrafe Nazionale Popolazione Residente (ANPR), ha visto crescere l’uso delle identità digitali SPID/CIE e dell’app IO per i servizi pubblici, segnando progressi nei servizi digitali della PA . Inoltre, è stata pubblicata la Strategia Cloud Italia per guidare la migrazione della PA su infrastrutture cloud sicure.

Nonostante questa attenzione politica senza precedenti, permangono alcuni gap da colmare. Una quota significativa di cittadini e imprese non sfrutta ancora appieno le tecnologie digitali di base. Oggi oltre la metà degli italiani non possiede competenze digitali di base, una proporzione inferiore alla media UE. Anche la trasformazione digitale delle aziende non è uniforme: interi settori e territori risultano indietro. In sintesi, l’Italia del 2025 presenta un quadro in chiaroscuro: da un lato una forte spinta strategica e investimenti in corso, dall’altro indicatori strutturali ancora sotto la media europea. Vediamo più in dettaglio come si stanno muovendo le risorse finanziarie e quali progetti sono sul tavolo.

Investimenti pubblici e privati nell’IA e nel digitale

Per recuperare il ritardo tecnologico, l’Italia sta mobilitando ingenti investimenti sia pubblici che privati. Il motore principale è senza dubbio il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) , che destina al digitale risorse mai viste prima. Ben 48 miliardi di euro dei fondi PNRR sono riservati a progetti di digitalizzazione – un importo pari a circa un terzo di tutti i fondi Next Generation EU dedicati al digitale in Europa. Nessun altro Paese UE investe una quota così ampia del proprio recovery plan nella trasformazione digitale: per fare un confronto, la Germania ha stanziato circa 15,5 miliardi, la Francia 8,7 miliardi, mentre solo la Spagna si avvicina all’Italia con circa 42 miliardi dopo una revisione del piano. Questo significa che l’Italia, grazie al PNRR, è oggi il primo investitore in digitale in Europa in termini assoluti.

Questi fondi pubblici straordinari finanziano centinaia di progetti: dall’informatizzazione della PA (es. pagamenti digitali, fascicolo sanitario elettronico) al Piano Banda Ultralarga per portare Internet veloce ovunque, fino a programmi per l’innovazione nelle imprese. Ad esempio, tra il 2021 e il 2022 il governo ha lanciato bandi per sviluppare reti in fibra ottica e 5G nelle aree meno coperte, e un voucher da 600 milioni per aiutare le PMI ad adottare connessioni broadband veloci. Sul fronte dell’IA, sono stati finanziati nuovi centri di ricerca: nel 2023 è nata la fondazione FAIR (“Future Artificial Intelligence Research”), un partenariato pubblico-privato coordinato dal CNR, che mette in rete 25 tra università ed enti di ricerca su tutto il territorio nazionale con 114 milioni di euro dal PNRR. Questo progetto coinvolge oltre 500 ricercatori (tra personale esistente, nuovi assunti e dottorandi) distribuiti dal Nord al Sud Italia, con l’obiettivo di sviluppare tecnologie di IA diffuse e affidabili in settori strategici. In parallelo, proseguono incentivi come il programma Transizione 4.0, che tramite crediti d’imposta stimola le imprese ad investire in soluzioni di automazione, intelligenza artificiale, cloud e altre tecnologie della quarta rivoluzione industriale.

Anche i grandi attori privatistanno facendo la loro parte, segnalando fiducia nel potenziale tecnologico italiano. Multinazionali tech come Microsoft, Google e Amazon hanno annunciato investimenti significativi in Italia, principalmente per l’apertura di data center cloud e poli di innovazione. Microsoft, ad esempio, ha avviato il progetto “Ambizione Italia” con investimenti per oltre un miliardo di euro, aprendo regioni cloud Azure nel nostro Paese e finanziando programmi di formazione digitale. Google Cloud ha stretto partnership con operatori locali (come TIM) per realizzare infrastrutture cloud sul territorio italiano e centri di competenza in AI. Come riportato sulla testata Agenda Digitale, giganti tech come Microsoft e Google hanno promesso investimenti “miliardari” in Italia per sviluppare competenze avanzate e servizi IA locali. Anche i colossi nazionali partecipano alla corsa: gruppi come Leonardo, TIM, ENEL, Intesa Sanpaolo stanno investendo in startup e laboratori di intelligenza artificiale, sia internamente sia tramite fondi di venture capital corporate. Ad esempio, Leonardo è partner del centro FAIR e sviluppa supercomputer e algoritmi per applicazioni dall’aerospazio alla difesa; Intesa Sanpaolo ha creato centri di innovazione per applicare IA a servizi finanziari.

Importante è anche la crescita dell’ecosistema startup italiano, che sta attirando capitali privati come mai prima. Il 2022 è stato un anno record per il venture capital hi-tech in Italia: oltre 2,1 miliardi di euro investiti in startup tecnologiche, un valore più che triplicato rispetto a pochi anni prima. Questo boom di finanziamenti – trainato sia da fondi italiani che da investitori esteri – ha portato alla nascita di nuovi “unicorni” (startup dal valore superiore al miliardo di dollari) italiani, specialmente nel fintech e nel digitale. Nonostante un temporaneo rallentamento nel 2023 in linea col contesto internazionale, l’interesse degli investitori privati verso l’innovazione “made in Italy” resta alto. Basti pensare che, secondo le previsioni degli Osservatori del Politecnico di Milano, entro il 2025 il mercato digitale italiano continuerà a crescere (sebbene a ritmo moderato, +1,5% previsto) e l’intelligenza artificiale sarà tra i primi tre settori per aumento della spesa ICT nazionale.

In sintesi, mai come oggi l’Italia dispone di risorse finanziarie per il digitale: ai fondi pubblici del PNRR – che ci pongono ai vertici europei per investimenti pianificati – si aggiungono le iniziative dei colossi tech e un ecosistema di startup in fermento. Il prossimo passo sarà sfruttare al meglio questi capitali all’interno di strategie efficaci, spesso in sinergia con i programmi europei.

Il ruolo dell’Italia nei progetti europei sull’IA

L’Italia non è un attore isolato: la sua trasformazione digitale si inserisce nelle grandi iniziative europee su innovazione e IA, dove il nostro Paese partecipa da protagonista. A livello UE sono in corso programmi ambiziosi per fare dell’Europa un leader nell’intelligenza artificiale etica e all’avanguardia, e l’Italia vi contribuisce attivamente sia in termini politici sia progettuali.

Uno sviluppo recente di rilievo è il lancio dell’iniziativa InvestAI da parte della Commissione Europea. Annunciata nel febbraio 2025, InvestAI punta a mobilitare complessivamente 200 miliardi di euro di investimenti in IA in Europa nell’arco di cinque anni. Si tratta di un colossale partenariato pubblico-privato: 50 miliardi di fondi UE e degli Stati membri andranno a sostenere ricerca e infrastrutture, affiancati da un impegno di 150 miliardi da parte di oltre 60 aziende europee riunite nella EU AI Champions Initiative. In pratica, l’Europa vuole creare una sorta di “CERN dell’Intelligenza Artificiale”, un ecosistema in cui scienziati e imprese di diversi Paesi (Italia inclusa) collaborino su progetti comuni senza dover dipendere solo dai colossi extraeuropei. InvestAI prevede anche la creazione di quattro “fabbriche di IA” (AI gigafactories) equipaggiate con supercomputer di ultima generazione – circa 100.000 chip AI ciascuna – per sviluppare i modelli di IA più avanzati. L’idea è di dare a ricercatori, startup e PMI europee accesso a una potenza computazionale condivisa, così da poter addestrare algoritmi di IA all’avanguardia senza dover avere in casa le infrastrutture dei giganti globali. L’Italia, forte anche delle sue competenze nel calcolo ad alte prestazioni (HPC), potrà beneficiare di queste risorse comuni: ad esempio, il supercomputer Leonardo installato a Bologna (tra i più potenti al mondo) fa parte della rete europea EuroHPC e potrà essere potenziato per fungere da “fabbrica” di modelli IA europei.

Oltre agli investimenti, l’Unione Europea sta definendo anche le regole del gioco sull’IA. In questo contesto si inserisce l’AI Act, il primo regolamento comunitario sull’intelligenza artificiale, che mira a garantire un utilizzo dell’IA affidabile, trasparente e centrato sull’uomo in tutti i Paesi membri. L’Italia contribuisce attivamente ai negoziati su questa normativa e dovrà poi recepirla, adattando la propria legislazione. L’AI Act introdurrà requisiti e standard (ad esempio vietando sistemi di IA ad alto rischio per i diritti fondamentali) che incideranno su sviluppatori e aziende italiane. In pratica, mentre a Bruxelles si discute come regolare l’IA per tutelare i cittadini, Roma dovrà predisporre le strutture per far rispettare le regole (ad esempio potenziando il neo-costituito Italian AI Office o autorità di supervisione nazionale). Già nel 2023 l’Italia ha mostrato un approccio prudente sull’IA: il Garante Privacy italiano è stato il primo in Occidente a sospendere temporaneamente ChatGPT per verifiche sulla protezione dei dati, segno che l’equilibrio tra innovazione e diritti è preso molto sul serio.

Il nostro Paese partecipa inoltre a diverse iniziative europee di cooperazione sull’innovazione digitale. Ad esempio, è coinvolto negli IPCEI (Importanti Progetti di Comune Interesse Europeo) su tecnologie strategiche come il microelettronico e il cloud computing, che mirano a sviluppare filiere continentali indipendenti. In ambito cloud e dati, aziende e istituzioni italiane aderiscono a Gaia-X, il progetto europeo per una federazione di cloud interoperabili e sovrani. Sul versante delle competenze digitali, l’Italia partecipa alla Coalizione europea per le competenze digitali e il lavoro, condividendo best practice e ottenendo fondi per programmi di formazione. Inoltre, grazie al programma Digital Europe, sono nati anche in Italia numerosi European Digital Innovation Hub (EDIH) – poli sul territorio cofinanziati da Bruxelles per supportare le PMI nell’adozione di tecnologie digitali avanzate (dal manifatturiero 4.0 all’IA). Questi hub europei in Italia offrono consulenza, formazione e servizi di test-before-invest alle imprese locali, integrandosi con i Centri di Competenza nazionali già esistenti.

Da non dimenticare il ruolo internazionale che l’Italia sta rivestendo: nel 2024 il nostro Paese ha assunto la presidenza di turno del G7, includendo l’innovazione digitale e l’intelligenza artificiale tra i temi centrali dell’agenda. Durante i lavori ministeriali del G7 (come l’incontro di Cernobbio su tecnologia e digitale), l’Italia ha promosso una linea di azione comune sull’IA responsabile e sull’impatto etico delle nuove tecnologie. Questa leadership diplomatica indica la volontà italiana di essere in prima linea nel dibattito globale sull’AI, allineando i grandi partner (USA, Giappone, ecc.) su principi condivisi.

L’Italia punta a un ruolo di primo piano nel dibattito internazionale sull’innovazione digitale e sull’IA. La presidenza italiana del G7 nel 2024, ad esempio, ha posto l’IA al centro delle discussioni tra le maggiori economie mondiali.

In sintesi, sul palco europeo l’Italia è sia beneficiaria che protagonista: beneficia di fondi e infrastrutture comuni (come InvestAI, i supercomputer europei, gli hub digitali), ma allo stesso tempo contribuisce attivamente a definire strategie e regolamentazioni. Questa duplice posizione è un’opportunità per accelerare la propria innovazione facendo leva sul “sistema Europa”.

Infrastrutture digitali e competenze: pilastri per l’innovazione

Per sostenere lo sviluppo dell’IA e la digitalizzazione, un Paese ha bisogno di solide infrastrutture digitali e di capitale umano qualificato. Su entrambi questi fronti l’Italia sta compiendo progressi, pur con ritardi da colmare rispetto ai partner avanzati.

Infrastrutture di rete. La connettività veloce è la base della società digitale. In Italia, la diffusione della banda ultralarga (fibra ottica e 5G) ha avuto un’accelerazione recente ma non raggiunge ancora tutti. La copertura delle reti a fibra ottica fino a casa (FTTH) e delle altre reti ad altissima capacità (VHCN) , pur in aumento, resta inferiore alla media UE e lontana dall’obiettivo di copertura universale entro il 2030. Per recuperare, sono stati investiti miliardi nel Piano BUL: si stanno cablando aree industriali e zone rurali storicamente trascurate, grazie anche ai bandi PNRR come il progetto “Italia 1 Giga” e “5G Backhaul”. Parallelamente, l’Italia è stata tra i primi Paesi europei ad assegnare le frequenze 5G (già nel 2018) e oggi le principali città e arterie sono coperte dal segnale di quinta generazione. Gli operatori TIM, Vodafone, WindTre e Iliad hanno lanciato servizi 5G che offrono velocità e latenze molto migliorate, abilitando applicazioni IoT avanzate (dalle auto connesse alle fabbriche intelligenti). La sfida è estendere il 5G anche fuori dai grandi centri e sviluppare la rete 5G Standalone per sfruttarne appieno il potenziale.

Data center e cloud. Oltre alle reti di telecomunicazione, servono robuste infrastrutture di calcolo e archiviazione dati. In passato l’Italia difettava di grandi data center sul territorio, ma ora la situazione sta cambiando. Come accennato, colossi globali del cloud (AWS, Microsoft, Google) hanno aperto o stanno aprendo regioni cloud in Italia (a Milano, Torino, Roma), offrendo servizi con bassa latenza alle imprese e alla PA italiane. Questo non solo attrae investimenti, ma aumenta la capacità computazionale locale a disposizione di progetti di IA (si pensi all’addestramento di modelli che richiede server performanti). Anche il settore pubblico sta sviluppando il proprio cloud: è in fase di avvio il Polo Strategico Nazionale (PSN) , un’infrastruttura cloud governativa ad alta sicurezza realizzata tramite una partnership pubblico-privata, che ospiterà dati e servizi critici della PA italiana in centri dati nazionali. Sul fronte supercalcolo, l’Italia vanta infrastrutture di eccellenza: il già citato Leonardo (presso il Tecnopolo di Bologna) è attualmente uno dei supercomputer più potenti al mondo e sarà usato anche per progetti di IA su scala europea. Queste capacità computazionali, unite a reti capillari, creano un ambiente tecnico favorevole allo sviluppo di innovazioni come l’edge computing e l’Internet of Things su larga scala.

Competenze digitali. Le infrastrutture, tuttavia, non bastano senza le competenze umane per usarle e innovare. Su questo versante, l’Italia presenta ancora lacune significative nella formazione digitale. Come già menzionato, meno del 50% dei cittadini possiede competenze digitali di base (saper usare internet, strumenti informatici, ecc.), posizionando l’Italia al 25º posto in Europa per capitale umano digitale. Ancora più preoccupante, solo l’1,4% dei laureati italiani proviene da discipline ICT (informatica, elettronica, telecomunicazioni), la quota più bassa dell’UE. Ciò significa pochi specialisti informatici formati ogni anno, insufficienza che costringe spesso le aziende a competere per un piccolo pool di esperti o a cercarli all’estero. La carenza di competenze avanzate rischia di frenare lo sviluppo dell’IA: secondo un rapporto del 2024, solo il 4,4% delle piccole imprese italiane utilizza tecnologie di IA, un dato ben al di sotto della media europea. Questa situazione è dovuta in parte alla scarsità di figure professionali (data scientist, sviluppatori, esperti di machine learning) disponibili sul mercato del lavoro italiano, oltre che a una limitata consapevolezza/formazione degli imprenditori sulle potenzialità dell’IA.

Per fortuna, il tema competenze è oggi riconosciuto come prioritario e sono in corso vari interventi. Il governo ha lanciato la Strategia Nazionale per le Competenze Digitali, sotto l’egida dell’iniziativa “Repubblica Digitale”, mettendo a sistema oltre 260 progetti formativi che nel solo 2021 hanno già coinvolto 2 milioni di studenti e cittadini. Inoltre, è stato creato il Fondo per la Repubblica Digitale (anche con il supporto di fondazioni bancarie), che finanzia programmi di formazione mirati a colmare il divario digitale. Sul fronte del lavoro, con il programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori) si punta a riqualificare lavoratori con nuove competenze, comprese quelle digitali, per facilitarne il reinserimento in settori innovativi. Anche molte università italiane hanno ampliato l’offerta formativa: sono nati nuovi corsi di laurea e master specifici in Intelligenza Artificiale, Data Science, Cybersecurity, spesso in collaborazione con aziende, per allineare le competenze dei laureati alle richieste del mercato. Iniziative come l’Apple Developer Academy di Napoli (che forma giovani sviluppatori di app) o i programmi Coding Girls e Digitale Italia per diffondere competenze nelle scuole, sono ulteriori tasselli di un ecosistema educativo in evoluzione.

Riassumendo, l’Italia sta potenziando i suoi “asset” digitali sia fisici (reti, cloud, supercomputer) sia umani (formazione e talenti). Permangono differenze territoriali – ad esempio il divario Nord-Sud in termini di infrastrutture e competenze è ancora marcato – ma le linee di intervento sono tracciate e supportate da ingenti risorse. Il successo dell’innovazione dipenderà dalla capacità di portare queste basi a livello di eccellenza diffusa: banda ultra-larga realmente per tutti, aziende e PA dotate di infrastrutture moderne, e una popolazione (dai manager ai neolaureati) pronta a cogliere le opportunità del digitale.

Sfide e criticità: ostacoli sulla strada dell’innovazione

Nonostante gli importanti progressi descritti, l’Italia si trova ad affrontare sfide significative nel suo percorso verso la piena maturità digitale. Identificare chiaramente queste criticità è fondamentale per poterle superare. Ecco i principali ostacoli sul cammino italiano dell’innovazione digitale e dell’IA:

    • Divario di competenze digitali: come visto, larga parte della popolazione non ha competenze digitali di base e mancano specialisti ICT in numero sufficiente. Questo divario formativo (digitale literacy) riguarda anche molti piccoli imprenditori e dirigenti, frenando l’adozione di nuove tecnologie in azienda. Inoltre, la cosiddetta “fuga di cervelli” vede molti talenti digitali formati in Italia emigrare verso Paesi con maggiori opportunità, impoverendo l’ecosistema nazionale.
    • Tessuto industriale frammentato: l’economia italiana è fatta di micro e piccole imprese (PMI), spesso a gestione familiare, con limitate risorse da investire in R&D e innovazione. Solo il 4% circa delle piccole imprese utilizza l’IA, segno di una scarsa adozione delle tecnologie avanzate. Le PMI faticano a introdurre sistemi digitali sia per costi sia per mancanza di competenze interne. Questa struttura produttiva frammentata rende difficile raggiungere massa critica in progetti innovativi e riduce la competitività rispetto a economie con imprese più grandi e strutturate.
    • Burocrazia e lentezze attuative: trasformare piani ambiziosi in realtà operativa rimane una prova impegnativa. Spesso i progetti digitali pubblici in Italia soffrono di ritardi, iter burocratici complessi e frammentazione delle responsabilità. Ad esempio, l’attuazione del PNRR richiede coordinamento tra ministeri, regioni, comuni, con il rischio di rallentamenti. La necessità di semplificare le procedure e migliorare la capacità amministrativa è cruciale affinché i fondi stanziati producano risultati tangibili (servizi funzionanti, infrastrutture realizzate) nei tempi previsti. I ritardi non solo compromettono gli obiettivi, ma possono far perdere fiducia a cittadini e investitori.
    • Divari territoriali e sociali: l’Italia presenta forti disomogeneità regionali. Alcune regioni del Nord sono vicine ai livelli europei per servizi online e banda larga, mentre altre aree – soprattutto interne del Sud e isole – restano indietro, creando un digital divide interno. Lo stesso vale a livello sociale: le fasce di popolazione più anziane o meno istruite hanno minore alfabetizzazione digitale. Questi divari significano che i benefici dell’innovazione rischiano di concentrarsi solo in alcune zone o gruppi, ampliando le disuguaglianze se non affrontati con politiche mirate (come incentivi per investimenti nel Sud, formazione per adulti, ecc.).
    • Bassi investimenti in R&S privata: nonostante i miglioramenti recenti, l’Italia sconta decenni di sottoinvestimento in ricerca e sviluppo (R&S) da parte delle imprese. La spesa in R&S rimane attorno all’1,5% del PIL (pubblico+privato), inferiore a Paesi come Germania e Francia. Ciò si traduce in meno brevetti, meno prodotti innovativi made in Italy e minore trasferimento tecnologico dal mondo accademico all’industria. Se le aziende non aumentano la propria spesa in innovazione (anche sfruttando crediti d’imposta e fondi europei come Horizon Europe), sarà difficile competere nei settori high-tech a livello globale.
    • Normative e regolamentazioni complesse: sebbene norme come l’AI Act mirino a garantire uno sviluppo etico, esiste il timore che un eccesso di regolamentazione possa rallentare l’innovazione. Ad esempio, alcune rigidità nelle leggi sul lavoro e sulla privacy possono rendere più onerosa la sperimentazione di nuove soluzioni digitali rispetto ad altri Paesi. Il caso di ChatGPT bloccato temporaneamente dal Garante Privacy ha sollevato dibattiti: da un lato è un segnale di tutela dei dati, dall’altro alcuni hanno visto il rischio di dare un messaggio di ostilità verso l’innovazione. La sfida è trovare un equilibrio tra sicurezza/etica e libertà di innovare, evitando sia vuoti normativi pericolosi sia eccessi di vincoli.

In parole povere, l’Italia deve correre su due binari: continuare a investire e innovare, ma anche rimuovere quei fattori strutturali che tradizionalmente la frenano. Se competenze, burocrazia e dimensione d’impresa non migliorano, c’è il rischio che i grandi piani rimangano sulla carta, senza un impatto reale su produttività e qualità della vita. Al contrario, affrontare di petto queste criticità può liberare tutto il potenziale delle risorse messe in campo.

Prospettive future: verso un’Italia leader nell’innovazione

Guardando al futuro prossimo, ci sono motivi sia di cauto ottimismo sia di consapevolezza del lavoro ancora da fare. L’Italia ha davanti a sé un’occasione storica per trasformarsi da inseguitrice a protagonista dell’innovazione digitale, a patto di perseverare sulle azioni intraprese e rafforzarle ulteriormente. Quali passi dovrà compiere il Paese nei prossimi anni per centrare questo obiettivo?

      1. Dal PNRR alla strategia di lungo periodo: la prima sfida sarà dare continuità agli investimenti oltre la scadenza del PNRR (2026). Le risorse europee vanno utilizzate al meglio nei prossimi anni, ma già ora occorre pianificare cosa accadrà dopo. L’innovazione è un processo continuo: servirà un impegno strutturale dello Stato in ricerca e digitale anche al termine dei fondi straordinari. Ciò significa istituzionalizzare alcune riforme (ad es. rafforzare il Dipartimento per la Trasformazione Digitale come struttura permanente di coordinamento), e magari creare nuovi strumenti finanziari nazionali per l’innovazione. Ad esempio, ampliare il Fondo Nazionale Innovazione gestito da CDP Venture Capital, che investe in startup, in modo da continuare a sostenere l’ecosistema emergente anche senza il traino del PNRR. Spendere bene e nei tempi il PNRR rimane comunque prioritario nel breve termine – come ha sottolineato l’Osservatorio Agenda Digitale, solo “seminando” efficacemente ora si potranno “raccogliere” frutti duraturi domani.
      2. Puntare sulle competenze e i talenti: per diventare leader nell’IA, il capitale umano è la risorsa più preziosa. L’Italia deve invertire la rotta su formazione STEM e digitale: aumentare drasticamente il numero di laureati in informatica, ingegneria e data science (ad esempio attraverso borse di studio, orientamento nelle scuole, attrattività degli atenei). Allo stesso tempo, occorre attrarre e trattenere talenti: rendere il Paese appetibile per i giovani innovatori con opportunità di carriera e ricerca di alto livello. In questo contesto, la creazione di poli di eccellenza (come il Centro FAIR) in diverse città può offrire ai ricercatori validi motivi per restare. Andrebbe facilitato anche il rientro dei “cervelli” dall’estero, con incentivi fiscali e posizioni di richiamo. Sul piano delle competenze diffuse, l’obiettivo al 2030 è ambizioso: portare almeno l’80% dei cittadini ad avere competenze digitali di base (target del Digital Compass europeo). Per centrarlo, l’Italia dovrà proseguire e ampliare iniziative come Repubblica Digitale, magari rendendo obbligatori certi percorsi di alfabetizzazione (es. corsi digitali per i disoccupati, moduli di coding in tutte le scuole secondarie). Una forza lavoro preparata è fondamentale perché le imprese possano adottare l’IA su larga scala senza timori e resistenze.
      3. Supportare l’innovazione nelle PMI: data la struttura economica italiana, è cruciale coinvolgere le piccole e medie imprese nella rivoluzione digitale. Il rischio altrimenti è avere un élite di grandi aziende iper-digitalizzate e un tessuto di PMI che resta analogico. Servono misure ad hoc: ad esempio voucher e crediti d’imposta più forti per progetti di IA e automazione nelle PMI; programmi di mentoring e formazione manageriale sull’Industria 4.0; diffusione dei Digital Innovation Hub in ogni territorio per accompagnare le imprese passo passo. Inoltre, stimolare forme di aggregazione tra PMI (contratti di rete, consorzi per l’innovazione) può aiutare a condividere costi e competenze. L’Italia può giocare alcune carte vincenti di settore: ad esempio il manifatturiero italiano (dalla moda al design, dalla meccanica al food) potrebbe incorporare AI e analytics per migliorare qualità e personalizzazione dei prodotti, aumentando la competitività internazionale. Ci sono già esempi di PMI che grazie all’IA hanno ottimizzato processi o creato nuovi servizi – questi casi di successo vanno promossi come modelli da emulare.
      4. Rafforzare l’ecosistema ricerca-impresa: uno dei punti deboli storici italiani è la scarsa collaborazione tra università e industria. Per innovare bisogna colmare questo “gap di trasferimento tecnologico”. In futuro dovremo vedere più progetti congiunti tra centri di ricerca e aziende, sulla scia di quanto avviato con i partenariati PNRR (come FAIR) e gli Ecosistemi dell’Innovazione territoriali. Creare distretti tecnologici dove start-up, grandi imprese, atenei e laboratori coesistono (sul modello delle Silicon Valley locali) aiuterebbe a far circolare idee e competenze. Il governo potrebbe incentivare ulteriormente i dottorati industriali e i ricercatori aziendali, nonché semplificare la burocrazia per le spin-off universitarie. L’obiettivo è far sì che le scoperte scientifiche fatte in Italia (di cui non mancano esempi, dall’algoritmica all’ingegneria) si traducano più spesso in prodotti, brevetti e imprese innovative sul territorio nazionale, anziché all’estero. Come sottolineato da esperti, serve promuovere cooperazione tra ricerca e industria affinché l’entusiasmo per l’IA non resti solo sulla carta ma generi crescita economica reale.
      5. Continuare a investire in infrastrutture strategiche: la transizione digitale non ha un traguardo finale, le tecnologie evolvono di continuo. L’Italia dovrà quindi aggiornare e ampliare continuamente le proprie infrastrutture. Ad esempio, prepararsi già ora alla prossima generazione di reti (il futuro 6G), investire in cybersicurezza per proteggere sistemi sempre più connessi, e partecipare ai nuovi sviluppi come il quantum computing (dove esiste una Strategia Nazionale sulle tecnologie quantistiche). Mantenere e migliorare asset come i supercomputer è essenziale: andrebbe ipotizzata la costruzione di un altro HPC di classe exascale in Italia, magari in consorzio con altri Paesi europei, per restare all’avanguardia nella capacità di calcolo. Anche l’espansione del cloud sovrano italiano/UE e l’interoperabilità dei dati pubblici saranno temi chiave per i prossimi anni. Insomma, non si può pensare che l’infrastruttura odierna basti per sempre – l’Italia dovrà essere proattiva nel cogliere le nuove tecnologie emergenti e dotarsi per tempo degli strumenti adeguati.
      6. Promuovere una cultura dell’innovazione inclusiva: infine, un aspetto di prospettiva riguarda la cultura. Diventare leader nell’IA non è solo una questione di soldi o tecnologia, ma richiede un cambio di mentalità collettivo. In Italia bisognerà sempre più valorizzare il merito e il rischio imprenditoriale, superare la paura del fallimento che spesso frena le start-up, e diffondere l’idea che digitale non significa disumanizzare, ma anzi migliorare la vita di tutti se gestito con visione etica. Una forte enfasi andrà posta sull’IA “responsabile” e sull’innovazione sostenibile e inclusiva, in linea con i valori europei: l’Italia potrebbe farsi campione di un modello di trasformazione digitale che non lasci indietro nessuno – né regioni, né fasce sociali – e che rispetti i diritti. Ciò le darebbe anche un vantaggio competitivo, perché nel mondo c’è bisogno di soluzioni tecnologiche affidabili e “umanocentriche”, ambito in cui l’Europa e l’Italia possono eccellere.

In conclusione, le prospettive future dipingono un’Italia a un bivio: da una parte c’è la concreta possibilità di colmare finalmente il gap tecnologico e sedere al tavolo dei grandi dell’innovazione, grazie alle risorse investite e alle iniziative avviate; dall’altra vi sono rischi se le riforme si arenassero nelle solite sabbie mobili. I prossimi anni, fino al 2030, saranno determinanti. Se l’Italia saprà capitalizzare gli sforzi (passando – come si è detto – “dalla semina al raccolto”), potremo vedere un Paese trasformato: pubblica amministrazione digitale ed efficiente, imprese competitive con prodotti ad alto valore aggiunto, nuovi lavori creati dall’economia dei dati e dell’AI, migliori servizi per i cittadini. Riuscire in questa sfida significherà non solo più crescita economica, ma anche maggiore benessere sociale – in ultima analisi, un’Italia più moderna, inclusiva e protagonista nello scenario internazionale dell’intelligenza artificiale.